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NOTA DEL CURATORE di Gianni Volpi
Come dicono Ciment e Seguin nell’introduzione, l’opera critica di Roger Tailleur è tutta concentrata nell’arco di un ventennio scarso, ma le sue dimensioni sono tali da rendere difficile concentrarla in un solo volume. Ci è sembrato perciò utile, per avere un minimo di completezza sul lavoro di un critico di questa rilevanza, dividerne la “produzione” in due volumi. Il primo, questo, è dedicato ai suoi scritti su Positif, che è stato il perno della sua attività critica; il secondo, in uscita nel 2007, comprenderà i saggi lunghi e altri scritti. Degli scritti su Positif sono stati tradotti tutti i testi (diciamo il 95% di essi), tranne le “brevi” della rubrica “de A à Z” e quelle “occasionali” di poche righe su brutti film festivalieri, ma “necessarie” ai rendiconti dai festival che Positif voleva completi. In questa chiave possono essere viste anche certe note assai interne ai problemi e alle polemiche francesi di quegli anni, incomprensibili al lettore (tanto più se italiano, tanto più oggi, a distanza di tanto tempo) senza i testi cui si riferiscono o note e postille su fatti e circostanze e persone. Per quanto riguarda le “brevi”, molte delle osservazioni che contengono sono recuperate in schede più ampie, così è anche per le “note” che corrispondono a quel suo stile così peculiare di scrittura elegantissima eppure di “intervento” continuo, giorno per giorno, attento a tutto quanto capitava ed era pubblicato. Era davvero «uno dei rari critici a leggere i colleghi e a tenere conto, in senso favorevole o contrario, del loro parere». Era parte attiva, e ascoltata, del “dibattito” cinematografico. Su questo terreno relativo al cinema francese, ci è parso più utile pubblicare, accanto alle sue bellissime e ampie analisi di alcuni film-chiave degli anni Sessanta, un vero dibattito sulla Nouvelle Vague in cui tutti i temi relativi al cinema nazionale, dispersi qua e là in schedine più o meno brevi e occasionali, sono ripresi e sistematizzati (e confrontati con la visione degli altri redattori). Non ci è sembrato il caso di sacrificare oltre il lecito a una filologia maniacale, di arida e inutile erudizione che era quanto più odiava Roger Tailleur. Per la stessa ragione, ci è sembrato più utile non dare i testi in semplice ordine cronologico, sul filo di un’occasionalità senza più, ma di organizzarli attorno ad alcuni assi e filoni e solo all’interno di questi seguire la cronologia. Il modello è quello offerto dal bel volume antologico, curato da Michel Ciment e Louis Seguin: Roger Tailleur Viv(r)e le cinéma, Institut Limière/Actes Sud, 1997; ma le scelte sono diverse. Per un motivo semplice: che i testi tra i due libri coincidono solo in parte, diciamo per una metà, l’antologia francese raccogliendo una parte consistente da altri fonti, e il nostro libro aggiungendo decine di testi pubblicati su Positif che là non erano contenuti. Come in ogni suddivisione, c’è qualcosa di arbitrario, ma abbiamo preferito organizzare i testi di Tailleur attorno a filoni sufficientemente ampi, sufficientemente generali, ma in grado di rifletterne “i gusti e gli orientamenti”. Così ci è parso giusto iniziare con l’articolo in morte di Gary Cooper perché univa autobiografia e analisi del proprio rapporto con un mondo, l’America, e la sua capacità unica di lavorare sui miti di cui una grande figura di attore è portatrice. Assieme il saggio su Ford e quello su Hawks sono esemplari di una forma critica, così come quelle su I professionisti e su Detective’s Story sono analisi di strepitoso acume che includono in sé la storia di tutto un genere. Il western, poi, è il suo genere per eccellenza, lui che i generi ha saputo analizzarli come nessun altro nel loro aspetto di lavoro collettivo, nella loro dialettica tra normatività e innovazione. Americana è un lungo viaggio attraverso un vero continente, in cui si può forse ritrovare, scandita dal succedersi dei film, una vera e propria storia dell’evoluzione di un altro genere, il noir, dal Mistero del falco ai figli di Huston e Hammett, agli ultimi un po’ degeneri esemplari. E non va trascurato il suo gusto per la commedia, musicale e washingtoniana essa fosse, di Tashlin o Minnelli si tratti. Francia e Italia, il proprio paese e quello d’elezione (quello in cui sostiene che ora si trovi Roger lo scrittore e amico, e ex critico di Positif, Frédéric Vitoux: Il me semble désormais que Roger est en Italie, Actes Sud, 1986), gli forniscono l’occasione per alcuni lunghi, memorabili saggi su Becker e sulla Varda, su Antonioni e su Bertolucci; gli sguardi insoliti da altrove sono indicativi di un’attenzione al nuovo che negli anni Sessanta nasceva in Europa, e i testi sui film di Fellini, Bergman e Bresson incrociano occasionalmente Grandi Maestri, di cui, com’è pure per Buñuel o Welles o Kazan, ha più a lungo trattato in altre sedi (vedi il secondo volume, in preparazione). Le nostre non vogliono essere altro che ipotesi di lettura di un’opera di straordinaria fecondità e ricchezza al cui interno ognuno può ritagliarsi i propri percorsi privilegiati.
Un’ultima precisazione e un ultimo ringraziamento. L’introduzione a questo libro è stata scritta nel marzo 1997 per l’antologia sopra citata e non è stato neppure necessario, come suggerivano gli autori, adattarla al nostro contesto: era perfetta, era un bel quadro di un’epoca e di un grande critico in essa. Alla stessa fonte si deve la bibliografia completa di Roger Tailleur.
Il ringraziamento va a Michel Ciment, direttore di Positif e critico anche da noi notissimo, senza la cui generosissima e appassionata disponibilità questo omaggio a Roger Tailleur non sarebbe stato possibile.
Importanti sono stati inoltre l’aiuto e la collaborazione in primo luogo, di Paul-Louis Thirard e, in diversi momenti, di Georges Bollon, Goffredo Fofi, Paolo Mereghetti, Lia Furxhi, Alice Volpi, Davide D’Alto, Roberto Lasagna, Saverio Zumbo. (g.v.) La Phorma. Pickpocket di Robert Bresson di Roger Tailleur
C’è la realtà e c’è l’arte (lo scherzo, terzo concetto, per ora non mi interessa), il mondo e il cinema. Il secondo deve riprodurre il primo, o essere soltanto atto creativo? Ovvero, cavilli senza fine su un problema mal posto. Il cinema deve creare a partire da una riproduzione imposta da quella macchina stupida e magnifica che è la cinepresa. Di questa tappa necessaria che è la “riproduzione” la pittura ha messo tanto tempo a disfarsene; la 7a arte, finché userà la vecchia camera dei fratelli Lumière, anche se sensibilmente migliorata, non potrà mai evitarla. E Robert Bresson meno di altri, visto che non è né cartoonist, né autore radiofonico, né animatore di marionette.
I grandi cineasti sono ammirevoli per il surplus di realtà che la loro opera racchiude: Orson Welles è l’America o Otello più Welles, Eisenstein è Ivan più Eisenstein, Vigo l’Atalante più Vigo. Con Bresson s’instaura il regno del troppo-vuoto, Pickpocket si riduce a qualche tratto del ritratto del ladro.
A tutti gli stadi di ciò che non oso chiamare espressione, il partito preso di mutilazione è notevole. Un solo personaggio, una sola ossessione, una voce fuori campo e dei dialoghi laconici, una fotografia spenta in tinte grigio opaco, qualche nota di musica “classica”, degli attori soffocati. A officiare è Robert Bresson, il Grande Spegnitore. Si va ben oltre il grado zero della scrittura cinematografica cui tendevano più o meno felicemente i Preminger, Mizoguchi, Lang o i Renoir recenti. Siamo al di sotto del punto critico zero. Sartre ricordava la formula usata per Lo straniero di Camus: «È Kafka scritto da Hemingway». Pickpocket è Dostoevskij scritto a tratti dall’autore di Addio alle armi e, più spesso, da un suo discepolo abusivo. Il riferimento non è incongruo e, nel corso del film, quando l’autore non confonde economia e avarizia, né opera spoglia e spettatore deprivato, si trovano alcune short-stories di secca efficacia che lo scrittore yankee non avrebbe sconfessato. Per esempio: Michel, l’eroe, era un istante prima al luna park con i suoi amici. Lo ritroviamo, all’improvviso, a casa sua, i vestiti macchiati, la mano insanguinata. Breve commento: «Avevo corso, ero caduto». D’un tratto, entra l’amico. Dialogo: «Ho avuto così paura… - Paura di cosa? - Paura… -Spiegati!». L’amico non spiega nulla, Michel vede che la sua diffidenza è ingiustificata. Quando l’amico se ne andrà, tirerà fuori dalla tasca un oggetto. Commento: «L’orologio era molto bello». Non sempre il racconto è così felice, così limpido, ma sempre Pickpocket procede come un percorso ad ostacoli in cui le ellissi visive, verbali, temporali e spaziali sono altrettanti fossati da superare. Pickpocket è una sorta di 110 (minuti) ostacoli, e nello stesso tempo un perfetto esercizio di stile, a voler prendere per buona una definizione di stile come arte di saltare le idee, i punti, le parole intermedie. Perché Robert Bresson ha stile; forse non ha altro.
Tutti nel film si affannano ad aprire precipizi sotto i nostri passi. Lo scarto tra ciò che vede o sa l’eroe e ciò che noi vediamo e sappiamo è costante. A volte, siamo noi i primi a essere informati, e quella lettera sotto la porta su cui si arresta la cinepresa, Michel non la scoprirà che l’indomani. Perlopiù, siamo noi a soffrire di ignoranza, bisogna attendere a lungo un controcampo per fare conoscenza con l’interlocutore, afferrare al volo una battuta banale per apprendere ciò che sullo schermo sembrava essere scontato, si spera sempre in una rivelazione tardiva, e non parlo delle innumerevoli domande che i personaggi si pongono invano e dei silenzi così ostinati che perdono ogni valore di silenzio, dando, di contro, alle parole pronunciate un’importanza e una densità usurpate. Questa titillazione di ogni istante, questa piccola vertigine a vuoti continui non sono molto originali, ma Bresson ci gioca con sagacia sperimentata: hanno nome suspense. Il trucco di Bresson è quello di erigere questo procedimento di dettaglio all’insieme dell’opera, di trasformare questa minuta falsa chiave in una grande chiave di volta.
Si dice generalmente che Bresson disconosce le abituali categorie di “spettacolare” e di “drammatico”. Niente di più falso. Come tutti, questo regista fa ricorso agli effetti che non sono in lui più raffinati e sottili che in altri - il volto rigato di lacrime al funerale, il bacio finale -, sono più rari, ed è tutto. Allo stesso modo, le sequenze puramente documentarie di furto - l’allenamento nel retro del caffè, il biliardino elettrico, poi sul treno e in stazione - affascinano come un momento di Flaherty, che Bresson dice di amare molto. La realtà è infine presente sullo schermo, senza condiscendenze, il film la sfiora appena, la sorvola liricamente come nel balletto chapliniano dei panini. Tutto il resto non è che assenza, vuoto, attesa. Tutto il resto è anima, dunque silenzio.
Come fa Bresson per mostrare quest’anima, far urlare questo silenzio? Semplicemente, mostra meno, e tace di più. La sua maniera di vedere l’uomo, e nel caso usare l’attore, è qui determinante. È in base all’uso dell’attore che bisogna giudicare Bresson, essere a favore o contro. È noto come egli condanni il 99,98% dei film realizzati nel mondo (quasi tutti i film, ad eccezione dei suoi), a suo parere, concepiti, costruiti e interpretati in maniera teatrale, e destinati, tra dieci anni, a essere invisibili, insopportabili. Di fatto, confessiamolo, i direttori d’attori più stimati - Cukor, Welles, Bergman, Kazan - sono uomini di teatro, e la recitazione e le sue tecniche, compresa la nozione stessa di “naturalezza” così cara a Stendhal, evolvono e passano di moda, come i costumi e l’idea stessa di bellezza. Bresson fa dunque una grande scommessa con la posterità, affermando che fra vent’anni solo le sue opere saranno visibili e che le scene che oggi fanno sbuffare il pubblico - Michel esasperato che maltratta la sua biblioteca davanti al commissario in visita - saranno capaci di catturarlo. Con calma ma con fermezza, Robert Bresson, questo folle che si prende per Robert Bresson, rimette in questione il cinema. Bisogna rifiutare lui, o rifiutare tutto il resto del cinema. Io sono troppo interessato al piacere del momento, troppo inadeguato a giudicare e reagire in chiave di eternità, e credo di trovare, tra il 99,98% della produzione cinematografica, abbastanza buone e solide ragioni per rifiutare Bresson.
Non concedo a Pickpocket nessuna indulgenza se non in funzione del resto del cinema: Flaherty, Chaplin, la suspense, di cui sopra, ed ora Henry Fonda di cui gli occhi di Martin Lassalle sembrano evocare lo splendore. Si può anche concedere all’opera bressoniana un’utilità storica, che non la arricchisce intrinsecamente ma, se ben compresa, può essere benefica. Reagendo contro gli abusi, però, Bresson cade nei propri abusi. Grida “Al folle” ai suoi colleghi giocando a essere più folle di loro. Li mette in guardia contro i loro eccessi e i propri, queste affettazioni di semplicità, questo manierismo dell’essere senza maniere.
Ma torniamo ai nostri montoni, ai nostri attori. Sono seduti, prostrati, o in piedi, le braccia penzoloni. Enunciano parole cui non credono, abbassano la testa alla fine della battuta e se ne vanno come anime in pena. Il romanziere di grado zero non scrive più «egli grida», «urla», «implora», ma sempre «egli dice»; Bresson fa lo stesso. Oltre che le parole, c’è lo sguardo, c’è l’espressione, c’è il gesto. Ma lo sguardo è quasi militare, fisso a tre passi, atono ma non atonale (c’era la musica atonale, c’è ora il cinema atono, e certuni vorrebbero stabilire fra le due cose delle corrispondenze!). L’espressione è rigida, uniforme, come dal fotografo quando si attende senza illusioni e senza allegria l’uscita dell’uccellino. Su queste facce intercambiabili, il commento - «Qualcosa illuminò il suo viso», «Credetti di vedere della malizia nei suoi occhi», «Ho creduto di vedere dello scherno sul suo viso» - cerca di ottenere, bene o male, l’effetto che Kulesov chiedeva al montaggio e altri più ingenui esigono dai loro attori. Quanto al gesto, esso è accuratamente trattenuto, è un gesto da inquisizione, e come passato alla ruota. L’uomo di Bresson, ripeto, è un’anima in pena, prigioniera nell’involucro idiota del corpo. L’autore vorrebbe ben far sparire questo corpo, cacciare l’uomo dal cinema come la pittura moderna ha bandito il ritratto, per non conservare che «l’anima e gli oggetti» (così l’autore riassumeva Un condannato a morte è fuggito), cioè, visto che la prima è a rigore invisibile, i secondi: quegli oggetti, dotati qui di una presenza e un risalto poco comuni, come in questo o quel “nuovo romanzo”. Altro segno di disprezzo umano è che in Bresson non si sorride, non si ride mai. Il riso essendo proprio dell’uomo, lascio a voi chiudere il sillogismo. E, poiché fa fine citare Pascal a proposito di Bresson, lo parafraserò un po’: Pickpocket riflette la tristezza del mondo di Dio.
Ecco il risultato di tutte queste privazioni: Bresson scava davanti a ognuno un abisso che ciascuno può riempire di ciò che vuole, la sua bella anima, la sua noia, la sua collera, il suo disprezzo. Ma poiché è impossibile mostrare l’anima senza il corpo, o spiegare il proprio pensiero senza ricorrere al linguaggio, e dunque di fare cinema senza cinema, si lancia lui stesso in questo vuoto, sotto forma di effetti ben sperimentati, bombole di ossigeno che tanto più stordiscono lo spettatore, quanto più esso boccheggiava; come nella storia del folle occupato a sbattere la testa contro il muro che trovava «così belli» i momenti in cui si fermava. Sul suo regno di ciechi obbligati, Robert Bresson può allora esercitare il suo derisorio potere, ma a stento, perché la pellicola vergine è ancora la più carica di spiritualità.
René Char ci aveva avvertiti: «L’essentiel est sans cesse menacé par l’insignifiant. Cycle Bas».
Positif, n. 33, aprile 1960 |